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"Schilferndes Leben"

 

Kraftvoll führt Astrid Gamper den Graphitstift auf dem Weiß der Fläche und leiht ihre Hand der seismographischen Aufzeichnung des Gesehenen, des Erlebten, des Gedachten, der Landkarte des Lebens auf der eigenen Haut. Dabei verschmelzen Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft in einem konzentrischen Sog des Daseins, dessen Wirbelbildung zwischen abstrakten Formen und erkennbar menschlichen Gliedern oszilliert. In der Betrachtung folgen wir dem Impuls im Auge festzuhalten, was wir gerade zu erkennen glauben. Sehen wir ins Innere des menschlichen Gehirns, ist es ein Mensch allein, schwingen in dieser Bewegung mehrere Körper? Es bleibt die Sorge, dass wir nicht schnell genug sind, dass sich diese Daseinsnebel bald wieder lichten werden, um sogleich neue Ballungen zu suchen und unsere Kopfbilder und „Gedächtnisblicke“ als neue Schicht darüber zu legen.

Die entschiedene schwarze Linie, das weite Spektrum der Grauschattierungen legen sich fein über den weißen Papiergrund und atmen ihm Bewegung ein. In ihrer Zartheit liegt aber die ganze Urkraft des Lebens, flüsternd und belebt.

Unsere Haut ist als größtes Organ die magische Grenze zu unserem Inneren, dessen Komplexität und unbezähmbaren Gedanken- und Gefühlssturm selbst die zeitgenössische Gehirnforschung erst in zaghaften Anfängen erahnen kann. Zwar kann sie heute sichtbar machen, wo das Gehirn gerade reagiert, wenn wir Ja oder Nein denken. Aber was fühlen und denken wir dort, wo das Gehirn gerade im Dunkeln liegt? Die Tausenden von Gedanken, die wir täglich denken und die unsere Wirklichkeit sind, ziehen wie eine Brise über unser Bewusstseinsmeer, um es zu kräuseln und Wellen aufzubauen bis zum Sturm.

Seit einigen Jahren entstehen zu den großformatigen Bildern von Astrid Gamper auch Texte, deren Sprachduktus die Bewegung auf den Bildern anzutreiben scheint. Die Texte wie die Bilder erzählen nicht, die Sätze setzen sich aus wortgewordenen Hautschuppen zusammen, die von den Bildern abgestoßen wurden. Zusammengesetzt nehmen sie den Dialog mit den Bildern wieder auf, werden auf die Ausstellungswände geschrieben, um auch dort wieder unsichtbar zu werden wie eine Geheimschrift, die wieder verblasst.

Es geht um die Haut als Metapher für das Leben in all ihren Bedeutungen und Funktionen. Sie schließt unser Sein nach außen ab, bietet uns Schutz. Aber das was uns unter die Haut geht, was uns Verletzungen zufügt, lässt sich nicht innen halten. Es bildet sich sichtbar ab im Erröten, schlägt aus.

Die Haut ist ein Lebensspeicher: Licht und Dunkel, Hitze und Kälte, Berührung und Distanz, alles hat einen Preis, schreibt sich über die Haut in die Seele ein und bleibt in Bildern, Gefühlen und Träumen.

Die Haut ist ein Wunder und erfindet sich und uns neu, schilfert in feinen Hornschüppchen ab, heilt Verletzungen, behält Narben.  Ein Kokon, eine Hülle, eine Hülse, ein Kleid. Die Bilder von Astrid Gamper schwingen in dieser Ambivalenz, die das Leben ausmacht. Keine Larmoyanz, keine Euphorie: „es ist nicht schwarz sondern grau / nicht weiß sondern schmutziges weiß“. Es geht dieser Künstlerin nicht um sich selbst, sie spiegelt uns in der Betrachtung auf uns selbst zurück, wo wir bleiben.

In den jüngsten Arbeiten absorbiert das Papier das Wesen der Haut und beginnt sich zu häuten. Hautfetzen scheinen abzuplatzen und die neue Bildhaut vorzubereiten, die Blätter wölben sich dem Raum entgegen, die bewegten Körper geben an den Raum ab, schimmern durch. Schichten, die aufgeklebt werden, stammen von alten und neuen Arbeiten, die ihrerseits verwundet werden und es bleiben. Lose Papierfetzen formieren sich neu zu „leeren Körperschalen“, die sich zu den Bildern und Texten stellen.

Ein eindringlicher Tanz der Stille, der die Betrachtung beschenkt.

 

Karin Dalla Torre Oktober 2018

"Squame di vita"

Astrid Gamper fa scorrere vigorosamente la matita di grafite sulla superficie bianca, prestando la sua mano alla rappresentazione sismografica di quanto osservato e vissuto, dei pensieri e della cartina della vita sulla propria pelle. Passato, presente e futuro si fondono in un vortice concentrico dell’esistenza, le cui formazioni turbinose oscillano tra forme astratte e membra umane. Osservando le opere, seguiamo l’impulso di fissare nello sguardo ciò che stiamo credendo di riconoscere: è l’interno del cervello umano, è una sola persona o sono più corpi a fluttuare in questo movimento? Siamo colti dalla preoccupazione di non essere abbastanza veloci, timorosi che questa nebbia dell’esistenza possa diradarsi rapidamente, per addensarsi altrove e stratificarvi sopra le nostre immagini e i nostri frammenti di memoria. 

La netta linea nera e il bianco spettro dell’ombreggiatura grigia si posano con delicatezza sullo sfondo bianco del foglio, instillandogli movimento. Nella loro leggerezza, tuttavia, si legge tutta la forza primordiale della vita, mormorante e dinamica.

La nostra pelle è l’organo più esteso e come tale un magico confine della nostra interiorità con la sua complessità e l’indomabile turbinio di pensieri e sensazioni, di cui la stessa ricerca sul cervello della nostra epoca può intuirne a malapena i rudimenti. Certo, oggi può rendere visibili i punti in cui il cervello reagisce quando noi pensiamo “sì” o “no”, ma cosa proviamo e pensiamo là dove il cervello si trova nell’oscurità? Le migliaia di pensieri che ci pervadono ogni giorno e che costituiscono la nostra realtà, si levano come una brezza sul nostro mare di consapevolezza, increspandolo e generando onde sino a creare una tempesta.

Da alcuni anni, le opere in grande formato di Astrid Gamper vengono accompagnate anche da elementi testuali, il cui ductus linguistico sembra sospingere le raffigurazioni al movimento. I testi, al pari delle opere, non hanno funzione narrante: le frasi si compongono di scaglie di parole liberate dalle immagini. Ricomposte, riprendono il dialogo con il raffigurato e vengono riportate sulle pareti della mostra, per tornare anche qui ad essere invisibili, come una scrittura cifrata che si dissolve ancora una volta.

Protagonista è la pelle, come metafora della vita, in tutti i suoi significati e le sue funzioni, che preclude la nostra interiorità all’esterno, offrendoci protezione. Ma quello che accade sotto la pelle, e ciò che ci procura ferite non resta all’interno, ma diventa visibile nel rossore, manifestandosi.

La pelle è come una memoria della vita: luce e oscurità, caldo e freddo, contatto e distanza. Tutto ha un prezzo, iscrivendosi nell’anima attraverso la pelle, per fissarsi in immagini, emozioni e sogni.

La pelle è un prodigio, si reinventa e ci reinventa, si desquama in piccole scaglie, cura ferite e serba cicatrici. Un bozzolo, un involucro, una custodia, un vestito. Le opere di Astrid Gamper oscillano in questa ambivalenza, che è l’essenza della vita. Nessuna lacrimosità, nessuna euforia: “non è nero ma grigio / non è bianco ma bianco sporco”. L’artista non parla di sé, ma ci rispecchia nella contemplazione di noi stessi, là dove restiamo. 

Nei primi lavori, la carta assorbe l’essenza della pelle, iniziando a desquamarsi. I brandelli sembrano staccarsi e preparare il nuovo rivestimento, i fogli s’inarcano verso lo spazio e i corpi in movimento si rimettono allo spazio trapelando. Gli strati che vengono applicati provengono da vecchi e nuovi lavori, da lei feriti e che restano tali. Lembi di carta liberi si ricompongono in gusci vuoti, presentandosi in testi e immagini.

Una persuasiva danza del silenzio, che ricompensa l’osservazione.

 

Karin Dalla Torre, ottobre 2018

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